The New Economy


"Le multinazionali del marchio possono anche parlare la lingua della diversità, ma il risultato tangibile delle loro azioni è un esercito di teenager clonati che - usando le parole degli esperti di marketing - marciano "in uniforme" per i corridoi del centro commerciale globale. Malgrado l'abbraccio di un immaginario di tipo multietnico, la globalizzazione indotta dai mercati non vuole affatto la diversità, anzi il contrario. I suoi nemici sono gli usi e i costumi nazionali, i marchi locali e i gusti distintivi di particolari aree geografiche. La scena è ormai dominata da un numero sempre minore di interessi.Abbacinati dalla vasta gamma di prodotti offerti, all'inizio potremmo non accorgerci dello straordinario processo di consolidamento che si sta verificando nei consigli d'amministrazione dell'industria dell'intrattenimento, dei media e del commercio al dettaglio. La pubblicità ci travolge con le confortanti immagini caleidoscopiche di United Streets of Diversity o ci seduce con slogan tipo quello di Microsoft che dice: "Where do you want to go today? - Dove vuoi andare oggi?" Ma nelle pagine economiche dei giornali, il mondo è monocromatico e le porte si chiudono una dopo l'altra. Ogni nuova notizia, sia che si tratti dell'annuncio di una acquisizione, di una bancarotta inaspettata o di una fusione colossale, evidenzia immediatamente una perdita di scelte significative. Ciò che conta davvero per il mercato non è tanto sapere "dove vuoi andare oggi?", ma capire "come posso meglio pilotarti nel labirinto sinergico del percorso che io ho deciso dovrai seguire oggi?".Questo attentato alla libertà di scelta avviene contemporaneamente su più fronti. Prima di tutto a livello strutturale, con fusioni, acquisizioni e sinergie aziendali. Poi a livello locale, con un manipolo di marchi che usano le loro ingenti risorse economiche per costringere a uscire dal mercato le piccole aziende indipendenti. (…) Tutti, in un modo o nell'altro, siamo stati testimoni di questa strana doppiezza per cui la possibilità di scegliere tra una vasta gamma di prodotti va di pari passo con nuove orwelliane restrizioni dello spazio pubblico e della produzione culturale. La possiamo vedere nel momento in cui una cittadina di piccole dimensioni assiste allo svuotamento delle vie del centro più animate, mentre enormi supermercati discount con circa 70.000 articoli sugli scaffali spuntano ai bordi della città, esercitando una sorta di attrazione gravitazionale che James Howard Kunstler descrive come la "geografia del nonluogo". Succede nelle vie alla moda del centro, dove un altro dei nostri bar preferiti, un negozio di ferramenta, una libreria indipendente o una videoteca d'arte vengono spazzati via dall'ennesima catena modello PacMan: Starbucks, Home Depot, the Gap, Chapters, Borders, Blockbuster. Se l'erosione dello spazio non ancora fagocitato dalle aziende, di cui ho parlato in precedenza, sta alimentando una sorta di claustrofobia globale che non vede l'ora di esplodere, sono allora queste limitazioni alla libertà di scelta (decise da quelle stesse aziende che avevano promesso una nuova epoca di libertà e diversità) che stanno facendo lentamente convergere il potenziale ed esplosivo desiderio di queste libertà contro le multinazionali e i rispettivi marchi, creando le condizioni per la nascita di un attivismo antiaziendale.C'è un tratto distintivo che accomuna molte delle catene proliferate negli anni Ottanta e Novanta quali Ikea, Blockbuster, the Gap, Kinko's, the Body Shop, Starbucks e che le distingue dai fastfood, dai centri commerciali periferici e dalle catene di accessori per auto che hanno dato impulso allo sviluppo del franchise negli anni Sessanta e Settanta. Queste nuove catene non sono illuminate da appariscenti conchiglie e archi dorati in plastica gialla da cartone animato, ma risplendono piuttosto di una sana brillantezza New Age. Questi vitali contenitori color verde brillante o blu Savoia si incastrano l'uno nell'altro come pezzi di Lego (quelli del nuovo tipo, che possono essere usati solo per una costruzione ben precisa, come la caserma dei pompieri o la nave spaziale, provvidenzialmente riprodotte sulla confezione). I commessi di Kinko's, Starbucks e Blockbuster comprano le loro uniformi con pantaloni kaki e magliette bianche o blu nei negozi the Gap, il cordiale saluto "Salve! Benvenuti a the Gap!" viene favorito da una buona tazza di doppio espresso sorseggiato da Starbucks; il curriculum che ha valso loro l'impiego è nato da Kinko's masticando un Macqualcosa ed è stato scritto con il carattere Helvetica 12 di Microsoft Word. I plotoni di commessi si presentano al lavoro profumati CK One (fatta eccezione per Starbucks, dove le colonie e profumi contrastano con il "romantico aroma di caffè"), con il viso liscio e levigato da un'esfoliante al germe di grano the Body Shop, prima di aver lasciato appartamenti arredati con librerie e tavolini fai da te di Ikea. (…).Questo sviluppo impetuoso è stato il risultato di tre strategie industriali che avvantaggiano nettamente le grandi catene che possono contare su ingenti riserve economiche. La prima è la guerra dei prezzi, per cui le principali maxicatene praticano sistematicamente prezzi inferiori a quelli dei loro rivali. La seconda consiste nel mettere fuori gioco i concorrenti concentrando un gran numero di punti vendita nella stessa area. L'ultima strategia è la creazione di sfarzosi superstore, fiori all'occhiello di ogni marchio, allestiti all'interno di immobili di prestigio, e che funzionano come una sorta di pubblicità tridimensionale del marchio stesso."

Tratto da No logo di Naomi Klein,Baldini e Castoldi editore.

Per saperne di piu': Naomi Klein,nata a Montreal, Canada, nel 1970, giornalista professionista pluripremiata,autrice del famoso saggio No logo, che viene considerato il manifesto del movimento no-global***. Negli ultimi anni ha lavorato alla stesura di Shock Economy.
No logo si divide in due parti : la prima è dedicata principalmente a un'analisi della storia del fenomeno del branding e alle sue ripercussioni sulle dinamiche del lavoro. Negli ultimi vent'anni avrebbe avuto luogo un radicale cambiamento nel capitalismo: prima era centrale la fase della produzione di merci, ora è diventa marginale e trascurabile, mentre si impiegano sempre più forze e denaro sul marchio e sulla proposta di una serie di valori immateriali ed ideali da collegare ad esso, con lo scopo di crearsi una propria fetta di monopolio. Le risorse monetarie che queste strategie richiedono derivano dal risparmio sulla produzione, che viene dislocata nei paesi del Terzo mondo dove l'azienda può sfruttare impunemente la manodopera operaia. Viene presentata un'analisi approfondita della realtà delle Export Processing Zone* dell'Asia e dell'America Latina.
La seconda parte del saggio descrive numerosi movimenti di reazione alle politiche applicate dai grandi marchi, da "Reclaim the Streets" alle pratiche del culture jamming**. 

*Export Processing Zone : (EPZ) o zone industriali di esportazione: rappresentano delle "zone franche" in paesi con livelli di arretratezza per quanto riguarda il mercato del lavoro (Cina, Messico, Vietnam, Filippine) in cui le multinazionali vanno a produrre con condizioni "speciali" sia dal punto di vista territoriale (costituzione di "micro-stati" in buona parte indipendenti dalle leggi territoriali nazionali) sia finanziario, come l'esenzione delle tasse per un periodo di tempo spesso anche lungo, come lo Sri-Lanka, il max, fissato a 10 anni dall'insediamento. Sono misure attuate dai singoli stati per rendersi competitivi con le multinazionali e garantirsi la presenza della produzione sul suolo nazionale. Sassen, 1998: "le zone franche fanno parte di un processo volto a "ritagliare" lembi di territorio nazionale per trasformarli in "aree denazionalizzate". Poco importa che tali aree denazionalizzate provvisorie e irreali si espandano continuamente inghiottendo spazi sempre più vasti".Prima idea delle EPZ: 1964 al Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite, che adottava una soluzione che avallò le zone franche come incentivo allo sviluppo del commercio per i paesi in via di sviluppo. Il progetto si afferma operativamente solo dagli anni Ottanta, con l'India che introdusse agevolazioni fiscali quinquennali per le majors che decidevano di installare impianti produttivi nel paese. Si stima a 27 milioni la quantità di popolazione mondiale che lavora nelle EPZ fonte: Programma dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro sulle EPZ).

**Culture jamming : traducibile in italiano con "sabotaggio culturale", è una pratica contemporanea che mira alla contestazione dell'invasività dei messaggi pubblicitari veicolati dai mass media nella costruzione dell'immaginario della mente umana.La pratica del culture jamming consiste nella decostruzione dei testi e delle immagini dell'industria dei media attraverso la tecnica dello straniamento e attraverso lo spostamento di immagini e oggetti dalla loro collocazione abituale per inserirli in un diverso contesto semantico dove il loro significato risulti mutato, se non capovolto. Il risultato è in genere la trasmissione di un messaggio di critica radicale del sistema economico che avviene per mezzo dello stravolgimento del suo apparato ideologico-pubblicitario, nel tentativo di liberare l'individuo dal ruolo di ricevente passivo e indurlo a un consumo critico e consapevole del linguaggio dei media.Oggi alcune forme comuni di si sviluppano attraverso i flash mob, il graffitismo, il teatro di strada, l'hacking(o "cybersquatting"), la "design anarchy" (cui prendono parte numerosi pubblicitari "pentiti").

***Movimento new-global o movimento anti-globalizzazione sono locuzioni nate per indicare un insieme di gruppi, organizzazioni non governative, associazioni e singoli individui relativamente eterogenei dal punto di vista politico ed accomunati dalla critica all'attuale sistema economico neoliberista la cui prima comparsa si ritiene comunemente avvenuta intorno al 1999 in occasione del G8 di Seattle.
Il termine nasce nella stampa italiana dal nome "Rete No Global Forum" per contrazione dello stesso. Il "popolo di Seattle" infatti non ha mai avuto una denominazione unica data l'enorme varietà e complessità delle organizzazioni che a seattle si sono incontrate. All'estero infatti non si è data una denominazione unica ad un tale insieme di elementi di natura tanto eterogenea. Detta denominazione, riuscendo ad inquadrare anche se semplicisticamente "coloro che manifestarono ai G8" come un'unica entità si è poi diffusa nella stampa italiana e quindi nel linguaggio di tutti i giorni anche se non esistevano gruppi che si siano dichiarati "no-global" e che siano poi stati identificati come tali all'epoca in cui il termine in questione venne usato per la prima volta.
La critica principale del movimento è volta verso le multinazionali: secondo gli aderenti, il loro potere è così forte da condizionare le scelte dei singoli governi verso politiche non sostenibili da un punto di vista ambientale ed energetico, imperialiste, non rispettose delle peculiarità locali e dannose per le condizioni dei lavoratori

Fonti:Wikipedia e No logo

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